>> Srebrenica (11 luglio 1995): per non dimenticare

Per non dimenticare quel che è avvenuto l’11 luglio 1995 a Srebrenica, Maurizio Molan, chirurgo generale acquese presso l’Ospedale di Alessandria, da anni volontario in missioni sanitarie in molti paesi africani, nelle scorse settimane, ha visitato e ci ha descritto il suo viaggio a Sarajevo e nei luoghi dell’eccidio di Srebrenica in Bosnia-Erzegovina. La missione solidale è stata organizzata dalla CNA Etica e Solidale Onlus di Valenza che si occupa di molti progetti in Italia e all’estero con particolare riferimento al sostegno, a distanza, anche di giovani malati. Tali iniziative che riguardano i diversamente abili, le classi speciali, la scuola materna e l’ospedale si svolgono a Donji Vakuf, cittadina vicino a Sarajevo.

«L’11 luglio 1995. L’11 luglio 1995 Srebrenica, cittadina della Bosnia-Erzegovina a pochi chilometri dal confine con la Serbia, è stata teatro della più vile strage di guerra perpetrata in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. 8372 persone di etnia musulmana, quasi tutti civili, prevalentemente uomini e ragazzi, sono state trucidate dalle soldataglie serbe del generale Ratko Mladic, nell’indifferenza generale, in particolare delle truppe olandesi del contingente Onu incaricate di proteggerli.

Ratko Mladic. Lo scorso 26 maggio, dopo sedici anni di latitanza, Mladic il “boia di Srebrenica” è stato finalmente catturato ed estradato in Olanda per essere processato di fronte al Tribunale dell’Aja, tra le proteste di piazza dei nazionalisti serbi che lo considerano un eroe nazionale.

Di lui si ricordano frasi quali “Le frontiere sono sempre state tracciate col sangue e le nazioni delimitate dalle tombe”. Nell’ordinare la strage di Srebrenica Mladic raccomandò ai propri uomini: “Uccidete solo gli uomini. Le loro donne devono vivere per soffrire !”.

Di fronte al più grave episodio di pulizia etnica in Europa dopo la Shoah, maturato in un contesto di lotte e rivalità di drammatica asprezza, non possiamo sottrarci, come cittadini europei, al comune dovere della memoria.

Srebrenica. Non ero mai stato in Bosnia. Nelle scorse settimane, miè capitata l’opportunità di recarmi nel cuore della ex-Yugoslavia, con gli amici della CNA Etica e Solidale Onlus di Valenza: un’esperienza unica e straordinaria che ho sentito il dovere di condividere. Nel percorrere i 120 Km della tormentata strada che da Sarajevo porta a Srebrenica colpisce l’assenza di cartelli indicatori. Sembra che le autorità bosniache non abbiano voluto segnalarne il nome. Solo a Bratunac, a pochi chilometri dal confine serbo, un cartello indica che Srebrenica si trova a 10 km. Nel pomeriggio di una livida e fredda giornata di maggio, arriviamo al grande cimitero di Potocari, circondato da colline verdi, a pochi chilometri dal centro abitato di Srebrenica. Le lapidi sono per buona parte di pietra bianca lucente e di legno dipinto di un verde brillante: sono quelle degli ultimi tumulati. All’ingresso vi è una piccola moschea costruita come un porticato aperto sui lati e circondata da un grande semicerchio marmoreo su cui sono incisi i nomi delle vittime del massacro. Tra le steli di pietra sparse qua e là, una colpisce particolarmente: “8372”. E’ il numero delle vittime, che, però non è ancora quello definitivo.

I 600 caschi blu dell’Onu. Durante i fatti di Srebrenica i seicento caschi blu del contingente olandese dell’Onu, presente nella zona, non intervennero: i motivi e le circostanze di questa scelta non sono stati ancora del tutto chiariti. Alle famiglie delle vittime crudelmente massacrate, così, non è stato neppure concesso il più elementare dei risarcimenti morali: conoscere la verità. Non è questa la sede per approfondire la questione del comportamento dei caschi blu, anche se deve essere comunque osservato che, secondo molte testimonianze di sopravvissuti e il giudizio di osservatori neutrali, Srebrenica rappresenta uno dei momenti (purtroppo non l’unico) in cui le “truppe internazionali di pace” hanno tragicamente dimostrato la loro impotenza e inutilità. E’ giusto, comunque, ricordare che a seguito della pubblicazione di un rapporto sul massacro, il premier olandese Wim Kok fu costretto alle dimissioni.

Identificazione. Un altro aspetto irrisolto di quella tragica pagina della storia europea riguarda le sepolture: solo 4524 delle vittime, infatti, sono state identificate. Molti degli scomparsi sono ancora sepolti in fosse comuni e buona parte delle salme esumate si trovano nell’obitorio di Visoko, a sud di Sarajevo, in attesa di essere identificate grazie al paziente lavoro dei medici legali e al ricorso alle metodiche del riconoscimento con il Dna.
L’11 luglio di ogni anno, nella ricorrenza dell’eccidio, le vittime identificate sono tumulate: lo scorso anno furono più di settecento.

Sarajevo. E’una città che ha, nel suo centro, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, quattro luoghi di culto: la moschea, la cattedrale cattolica, la chiesa greca-ortodossa e la sinagoga. Una situazione del genere non esiste in nessun’altra città del mondo: è il segnale storico e culturale di come l’accettazione reciproca dell’altro, benché diverso, rappresenti una ricchezza, un “valore aggiunto” piuttosto che un elemento di divisione per la società contemporanea».

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