Da “Racconti di vita” del CTP: una madre macedone racconta la sua odissea

Tra i vari bei “racconti di vita”, editi dagli studenti del Centro Territoriale Permanente di Canelli, stralciamo quello della macedone Eleonora Demjanova che così rivive il suo “viaggio”.

«Mai avrei pensato di trovare la forza per stare lontana dai miei figli per quattro lunghi anni. Ora credo che tutto sia possibile nella vita di un essere umano». I bimbi avevano soltanto 2 e 3 anni. Struggente il colloquio con la madre. «E così te ne vai anche tu! Vai a raggiungere tuo marito e abbandoni i figli». «Mamma – mi venne da urlare – non li abbandono, voglio solo fare il meglio per loro». «Lo sai cosa vuol dire crescere senza una madre?». «Può essere crudele, ma sai che abbiamo sempre vissuto senza avere abbastanza soldi per una vita decente… Poi i nostri figli cresceranno, avranno bisogno di soldi anche per la scuola. Sono stufa di questa vita di sofferenza. Ti prego di capirmi».

«Che Dio ti benedica, figlia mia». «La baciai, salutai i miei figli, mia suocera, la mia casa, la terra – prosegue Eleonora –  Lasciavo alle spalle il mio mondo  per andare in un altro totalmente nuovo e sconosciuto. Un vuoto cominciava a farsi sentire dentro lo stomaco. Era il vuoto che ogni giorno si riempiva di solitudine e nostalgia.

Era il 15 agosto, dopo 15 ore di viaggio arrivai a Nizza Monferrato dove mi aspettava mio marito che era venuto nove mesi prima. Tutto mi sembrava strano. Mi aspettavo un appartamento lussuoso, come immaginavo fossero nell’occidente, invece quella casa sembrava avere come mobilio  solo dei letti… Cominciai ad avere paura che aumentava  pensando a quello che mi aspettava  fuori da quella stanza.Ero anzitutto una clandestina. Una persona quasi senza identità.

Dovevo trovare lavoro e subito… Il primo lavoro che ho trovato era in campagna: mi alzavo al mattino presto, andavo a vendemmiare, tornavo a casa la sera tardi, stanca e distrutta. La mia stanza era semplice, ma era il mio rifugio dove tornavo con la mente alla vita di prima… Mi immaginavo come si muovevano i miei figli, cosa avrebbero detto, come erano cresciuti, mi mancavano da morire, però dovevo avere pazienza…  Trovare un lavoro fisso, essendo clandestina, era difficile. Avevo conosciuto tanta gente, imparato la lingua e trovato diversi lavori a chiamata.

Avevamo conosciuto persone che ci avevano promesso che ci avrebbero messi in regola appena fosse uscito il decreto dei flussi… Pensavo sempre “sono un essere umano invisibile, non figuro registrata da nessuna parte”. I maledetti documenti sono pezzi di carta che ti possono togliere le paure, ti possono far rivedere i tuoi figli e farti camminare sulla strada con dignità e non con la testa piegata come per una colpa.Alla fine del 2005 fu emanato il decreto flussi, ma il mio datore di lavoro, qualche giorno prima, aveva chiuso la sua ditta. Sentii il mondo che si spezzava davanti.

Non riuscivo più a pensare al futuro. La speranza rinacque nel 2006 con il nuovo decreto flussi. In quel periodo avevo trovato una famiglia dove andavo a fare le pulizie (dove ancora oggi lavoro)… Sognavo ad occhi aperti il viaggio di ritorno a casa, gli abbracci dei miei figli. Era l’8 marzo, la festa della donna…». Dalla questura arrivano i nulla osta. «Il giorno successivo sono andata in un’agenzia di viaggi ed ho prenotato il primo volo. L’incontro con i nostri figli è avvenuto il 23 marzo del 2007, cioè dopo quattro anni per me  e cinque anni per mio marito da quando eravamo partiti da casa. Le nostre chiacchiere al telefono non avevano potuto coprire il vuoto creato dalla lontananza fisica. Da quattro anni li vedevo nelle foto che li mostravano immobili e io li volevo sentire parlare, vedere, muovere…» Ero rimasta stupita che riuscivano ancora a chiamarmi mamma. Siamo stati insieme due mesi, poi siamo tornati in Italia. Abbiamo fatto il ricongiungimento familiare e, dopo un anno, li abbiamo portati qui con noi».

La signora Eleonora chiude con alcune profonde riflessioni: «La vita è fatta di partenze e ritorni. Una cosa ho imparato: si potrà anche soffrire, stare male, piangere, ma ci si rialza sempre, perché nulla è più importante di noi stessi, della nostra vita, della nostra famiglia che è il dono più importante che abbiamo. E la vita rimane sempre un meraviglioso viaggio. Non si sa mai quando si completerà. Resterà sempre un viaggio non compiuto, incompleto perché noi siamo sempre alla ricerca di una nuova meta».